LA DEFORMAZIONE CREA LO SPAZIO

Articolo pubblicato sulla rivista online Imprinting n°3

In un importante studio del 1954 Rudolph Arnheim, intitolava così il paragrafo di un capitolo dedicato allo spazio visivo (1). Alcuni anni prima, Laszló Moholy-Nagy precisava che «la deformazione può essere intesa (in aggiunta ai suoi altri significati) come sinonimo dello spazio-tempo» (2). Infatti, fra quei tanti significati, a noi interessa qui considerare la deformazione come uno dei più importanti indizi visivi in grado di suggerire la profondità su un piano pittorico, vale a dire su una superficie bidimensionale. Perché una figura deformata suggerisce profondità? Che cosa è una figura deformata? Rispondendo a queste due domande potremo comprendere le due autorevoli premesse, quella di Arnheim e di Moholy-Nagy.

Osserviamo questo schema (3):

 

L’immagine mostra due file di cinque figure geometriche, allineate e equidistanti su una linea progressiva orizzontale. Le prime figure ‘a’ e ‘b’ risultano fra loro identiche per forma, colore, dimensione, orientamento: sono due figure quadrate. Ma, tanto l’una quanto l’altra subiscono una progressiva deformazione: ‘a’ subisce uno stiramento orizzontale dello spigolo superiore destro; ‘b’, invece, subisce uno schiacciamento progressivo del lato verticale sinistro e uno stiramento simmetrico del lato opposto. Le due conclusioni possibili soddisfano entrambe le domande che ci siamo posti. La prima: la deformazione rappresenta l’alterazione di una figura rispetto al suo stato originario; la seconda: le cinque figure (sia nella prima che nella seconda riga) vengono lette come la sequenza di un quadrato dislocato in profondità e non come un insieme di figure romboidali di varia misura. Quest’ultima importante conclusione si spiega col fatto che, per esempio, il parallelogrammo  appare «come la deformazione di un’altra figura più semplice, più regolare: un quadrato o un rettangolo inclinato. Invece di un parallelogrammo vediamo una figura rettangolare deformata. La deformazione è il fattore chiave della percezione della profondità, perché diminuisce la semplicità e aumenta la tensione del campo visivo […]» (4). Con queste parole Arnheim ha voluto significare che, ancora una volta, il desiderio di semplicità è alla base di qualunque interpretazione di informazioni visive. Noi tendiamo a semplificare, sempre e costantemente. Un quadrato è più semplice (strutturalmente) di un parallelogrammo, per questo scegliamo di interpretare quelle figure come “inclinate”! Naturalmente, la storia delle arti visive non manca di sfoggiare esempi di applicazione di questo importante indizio di profondità. In un’importante libro, Ernst H. Gombrich, mostra l’immagine di un vaso greco a figure rosse che rappresenta Achille nell’atto di indossare l’armatura. Probabilmente il dettaglio del piede in scorcio, rappresenta il primo tentativo di utilizzazione dell’indizio deformazione per simulare la profondità del piano pittorico. «Fu un momento drammatico [scrive Gombrich] nella storia del’arte quando, poco prima del 500 a. C., gli artisti osarono dipingere, per la prima volta nella storia, un piede visto di fronte» (5). La cosa si ripeterà di lì a poco, in un ambito diverso, la scultura. Gombrich ci mostra un frammento del fregio marmoreo del Partenone:

Auriga, 440 a. C.. ca (particolare del fregio del Partenone).

 

L’immagine mostra chiaramente un dettaglio di non poco conto, forse il più importante: la forma dello scudo. A questo punto, il concetto gestaltico di semplicità cui faceva cenno Arnheim, appare finalmente più chiaro.
Forse uno dei più noti esempi della pittura è rappresentato dall’immagine in scorcio del cavaliere caduto nella battaglia di San Romano, opera di Paolo Uccello (analogamente alla figura deformata del Cristo morto che Mantegna dipinse alla fine del Quattrocento):

Paolo Uccello, Battaglia di san Romano, 1438 c.

 

L’indizio deformazione raggiunge risultati inconsueti nella pittura moderna. Strano a dirsi, poiché in genere si ritiene che la rappresentazione dello spazio su una superficie piana, quella pittorica, sia prerogativa di una rappresentazione analogica della realtà. Non è così, se accettiamo il fatto che la storia dell’arte sia la storia della rappresentazione del concetto di spazio. La pittura razionalista (basti pensare a Malevič o Rodčenco) offre un varietà di esempi straordinari, a tal punto che lo stesso Arnheim non mancherà, a tal proposito, di precisare che non esiste un dipinto completamente bidimensionale. Inevitabile fare cenno alle opere di  Victor Vasarely o alle sperimentazioni grafiche di Bruno Munari. A conclusione di questo breve racconto, riportiamo l’immagine di un lavoro di Marcello Morandini. Si tratta di un marchio di fabbrica, ma non importa. Sono tanti, infatti, i graphic designer che, sulla scorta delle conoscenze dei meccanismi psico-percettivi, inventano soluzioni grafiche di forte impatto visivo.

Marcello Morandini, Forma & Funzione, marchio aziendale, 1975.

 

Note:

  1. Rudolph Arnheim, Art and Visual Perception: a Psychology of the Creative Eye, University of California, 1954; trad. It.: Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 2000.
  2. Laszló Moholy-Nagy, Vision in Motion, Paul Theobald and Company, Chicago, 1965.
  3. Clemente Francavilla, Vision & Visual Design, Hoepli, Milano, 2017.
  4. Rudolph Arnheim, 1954, cit.
  5. Ernst H. Gombrich, The Story of Art, Phaidon Press Limited, Londra, 1950; trad It.: La storia dell’arte raccontata da Ernst H. Gombrich, Einaudi, Torino, 1970.

Lois Swirnoff, cit. Kurt Koffka, 1988

«Transposition does not distrupt the aggregate. Musically, a change of key does not destroy the melody (…)».