ADELE PLOTKIN

Articolo pubblicato sulla rivista online Archeo Modernitas, n° 0, maggio 2016

Fra le scuole di formazione artistica americane più accreditate negli anni cinquanta, la Yale University – School of Design. «La scuola era sotto la guida del grande Josef Albers, ed era proprio in quell’epoca che usciva un libro fondamentale, Arte e percezione visiva, di Rudolf Arnheim. Arnheim era uno dei primi studiosi, psicologo, che studiò e collegò fenomeni della percezione visiva con il mondo dell’arte, degli artisti. Quasi tutti gli studenti lo leggevano, lo discutevano, cercando di apprendere e digerire le informazioni lì contenute» (1). Con queste parole Adele Plotkin racconta il clima di euforia che accompagnava gli studenti, non solo americani, nel corso quadriennale che sarebbe culminato in un Bachelor of Fine Art. Josef Albers, emigrato da Bottrop in Germania negli Stati Uniti nel 1933, fu invitato a guidare il Design Department , ruolo che mantenne dal 1950 al 1958. Il programma didattico prevedeva l’integrazione di diverse discipline all’interno dei corsi di progettazione, su modello del Bauhaus […]. Fu per esplicita volontà di Charles Sawyer, Preside della College of Fine Arts e direttore del nuovo Department of Design a Yale, affidare la direzione dei corsi, a dire il vero una scelta controversa, ad una personalità “straniera” seppur del calibro di Josef Albers, anche per rilanciare la scuola attraverso una rinnovata didattica. Didattica che Adele Plotkin fece propria applicandola, a sua volta, vent’anni dopo, quando le fu affidato il corso di Psicologia della Forma presso la neonata Accademia di Belle Arti di Bari. Il destino volle che questa scelta destasse le medesime perplessità rivolte nei confronti di una personalità “straniera”, quella per l’americana Adele Plotkin.

Adele Plotikin era nata a Newark nel New Jersey, insieme alle sorelle Barbara e Frances).
Conclusi gli studi alla Yale University all’età di ventiquattro anni, consegue una borsa di studio Fulbright per la pittura e si reca in Italia, a Venezia. Lì conosce Tancredi, Vedova e altri pittori veneziani. E’ un periodo fruttuoso di esperienze e, non certo casualmente, troverà in Emilio Vedova un potente punto di riscontro con il maestro armeno-americano Arshile Gorky.
Durante questi primi anni di soggiorno in Italia, a Venezia e successivamente a Roma per un rinnovo della borsa di studio, Adele Plotkin vive da vicino il rinnovato dibattito artistico europeo. E’ proprio a Roma che per la prima volta in Italia, espone nel 1970 presso la galleria Schneider […]. Intanto Adele Plotkin è ad Ischia. Lì si definisce il legame con Carlo Ferdinando Russo, intellettuale di Lucca e figlio di Luigi Russo. Il rapporto d’intesa è straordinario, gli interessi culturali comuni. Si trasferiscono insieme a Bari e per lei inizia anche il lungo periodo di docenza (che durerà fino al 1996) presso l’Accademia di Belle Arti, inaugurando il corso di Psicologia della Forma. L’insegnamento di questa disciplina è di fondamentale importanza per gli sviluppi del linguaggio figurativo di Adele Plotkin. E’ anche fondamentale per capire le sue opere, via via più complesse (addirittura fuorvianti agli occhi di un osservatore improvvisato) e lontane dagli esordi giovanili. Il lettore si chiederà che cosa sia la Psicologia della Forma, e soprattutto, come mai l’artista americana potesse esserne coinvolta come docente. All’inizio sono state riportate le sue parole riguardo una significativa circostanza che caratterizzava le entusiasmanti lezioni a Yale. Quella in cui le lezioni di Josef Albers, in particolare il suo corso sul colore, si affiancavano allo studio di un libro «che tutti gli studenti leggevano», “Art and Visual Perception: a Psychology of the Creative Eye”, di Rudolf Arnheim (emigrato anch’egli negli Stati Uniti nel 1940). L’importanza di quel libro risiedeva nel fatto che Arnheim per primo, avesse funzionalmente applicato le leggi della psicologia della percezione visiva alla lettura dell’opera d’arte. Secondo la Gestaltpsychologie (la Psicologia della forma) infatti, qualunque fenomeno estetico si può comprendere e dunque spiegare non solo ed esclusivamente da un punto di vista semantico, vale a dire di un contenuto, ma anche soltanto attraverso le cosiddette regole sintattiche, vale a dire la sua “forma”, intesa come un insieme strutturato delle singole parti: il modo in cui gli elementi figurali interagiscono tra loro e rispetto al campo, l’equilibrio visivo, il valore spaziale del colore, la sovrapposizione fenomenica e in generale le regole di organizzazione visiva (2) […]. Devo ribadire l’importanza di tutto ciò ai fini di una reale comprensione del percorso di ricerca di Adele Plotkin. Percorso che inizia nei primi anni cinquanta, a Yale. Il lettore deve anche sapere che il background cui poggiava tutta l’organizzazione didattica voluta da Albers, aveva una storia che non può esser trascurata. Quella che vedeva protagonisti lo stesso Albers, insieme a Klee, Kandinsky, Itten, in una esperienza didattica all’interno del Bauhaus degli anni venti e trenta in Germania, volta allo studio della genetica della forma. E’ all’interno di questo gruppo che nasce una nuova concezione dell’arte ma soprattutto una ideologia della creazione artistica.
Ma dobbiamo ritornare a tempi più recenti, quelli che vedono quasi un riaffiorare nella vita artistica di Adele Plotkin, dell’esperienza di Yale, delle lezioni con Albers. Perché lei stessa ne incarnerà metodi ed esperienza durante il periodo trascorso con i suoi privilegiati studenti in Accademia di Belle Arti. Ritengo che questa esperienza sia stata per lei di capitale importanza, del resto, qualcosa di simile era già accaduto con lo stesso Albers e i suoi studenti americani. Infatti fu proprio come conseguenza di quelle lezioni che nacque uno speciale sodalizio studente-insegnante.
Si spiega perché soltanto una allieva di Albers potesse accollarsi un tale insegnamento. Dunque, la psicologia sperimentale di Arnheim unita alla verifica pratica di Albers, presero a contraddistinguere le lezioni tenute in Accademia di Belle Arti da Adele Plotkin. Questo consentì all’artista di Newark di rivivere lei stessa quella esperienza che, a distanza di anni era tornata improvvisamente vitale.
A partire dagli anni ottanta si delinea un’idea di ricerca ben precisa e perentoria supportata da studi meticolosi. E’ un periodo di fertile produzione. E’ gioviale e disincantato. Questo periodo è però introdotto da una breve ricerca che vede protagonista il cerchio (fig.1). Forme circolari, forse un ricordo dei “Dischi” che Adele Plotkin ebbe modo di vedere nello studio veneziano di Emilio Vedova, negli anni sessanta.

Molto più probabilmente la forma circolare rappresenta qui, in sostituzione di quella quadrata utilizzata nel periodo precedente, una semplice porzione di spazio. Non uno spazio d’esistenza come per Vedova, ma il particolare della volumetria dello spazio fenomenico. E’ necessario che il lettore non si faccia fuorviare dalle analogie apparenti, anche quando sarà inevitabile prendere atto della presenza di quei piccoli segni a penna, sottili come tracce di scrittura, segni di una calligrafia indecifrabile come per l’artista americano Mark Tobey. Da ora in poi, infatti, le composizioni di Adele Plotkin escluderanno qualsiasi implicazione hard, quelle legate alla gestualità segnica che implicano un coinvolgimento personalistico, emotivo ed esistenzialista (come per Vedova o Tobey). Nelle opere di Adele Plotkin non vi sarà mai più traccia di questo. Le sue opere tenderanno sempre più verso il disincanto della fenomenologia della visione, verso la perfezione estrema dei dettagli, a tal punto che lei medesima annoterà in una pagina del suo diario di lavoro, il 4 marzo 2013, «Too much perfection is self-auto-destruction!».
[…]

Fig. 1

Senza titolo, Ø cm 30

Data non specificata

Cartoncino colorato a tempera su multistrato

(proprietà Biblioteca Comunale Comune di Pietrasanta – Lucca)

 

«In questa composizione si tenta una dissimulazione della forma circolare per mezzo della presenza prepotente di una sagoma di colore blu intenso. Quello che il lettore è invitato ad osservare è una specie di corrispondenza biunivoca fra gli elementi figurali posti sulle due grandi porzioni sagomate della superficie circolare: bucature simulate che diventano improvvisamente convesse e poi “fisicamente” a rilievo. A ben vedere, malgrado la composizione si presenti con la luce proveniente da destra, la zona sagomata di colore bianco appare in rilievo rispetto alla controparte in blu. Allora, come interpretare spazialmente le sagome a questa sovrapposte?»

 

Più tardi, questa forma circolare verrà inserita all’interno delle superfici rettangolari di un piano ma dissimulata attraverso vari artifizi. Altre volte continuerà ad apparire parzialmente, solo accennata, soprattutto quando l’artista americana deciderà di eliminare la forma spigolosa e “finita”, misurabile, del piano pittorico. Il lettore non deve pensare però che il ricordo e soprattutto il potente imprinting di Albers si sia dissolto. Al contrario.
Alla fine degli anni ottanta (in particolare fra il 1987 ed il 1991) farà ricorso a delle forme ameboidi ritagliate da superfici di legno multistrato tinteggiate di azzurro, all’interno delle quali organizzerà ritagli stratificati di cartoncino colorato nelle variazioni di tonalità del verde-azzurro (fig. 3).

Fig.2

Senza titolo, 60×98

04-1987

Cartoncino colorato a tempera su multistrato

(proprietà Biblioteca Comunale Comune di Pietrasanta – Lucca)

 

«Quest’opera presenta qualcosa di innovativo: la completa eliminazione del piano pittorico, sostituito dalla parete. La sintesi estrema e l’invenzione della soluzione formale sono rappresentati dal dialogo che avviene fra ciò che si trova al di là della linea (non più margine) convessa e ciò che, invece, si trova al di qua (all’interno) della stessa linea. Ma cosa mette in relazione le due porzioni di spazio? Il lettore è invitato a soffermarsi sui margini che si continuano da una parte e dall’altra della linea curva, a favore di tre piccole forme irregolari. Due di esse (quelle collocate all’interno di quella linea) suggeriscono, con i loro margini, il contorno di un’altra figura “in negativo” coincidente con lo sfondo privo di limiti della parete.»

 

Fig. 3

Danger-every where, 50×90

04-1990

Cartoncino colorato a tempera su multistrato

(proprietà Biblioteca Comunale Comune di Pietrasanta – Lucca)

 

«Lo spazio “oltre” la tavola pittorica (lo spazio coincidente con lo sfondo della parete) distrugge persino la forma lobata e si insinua all’interno di essa come a corroderla. Il cerchio è ancora presente ma è più difficile individuarne la presenza.»

 

 

Il lettore deve essere informato del fatto, non trascurabile, che le volumetrie cromatiche di Albers (le superfici di colore dei quadrati all’interno di altri quadrati) servivano a stabilire distanze percettive diverse fra il piano e l’osservatore; al di là di qualunque volontà di simulare una profondità prospettica; la spazialità evocata in quelle opere avrebbe dovuto abbandonare la superficie fisica del piano pittorico per invadere lo spazio reale, come quello, altrettanto solido e concreto. Ebbene, questa spazialità (il fatto di percepire realmente delle “distanze” oltre ogni tipo di rappresentazione realistica) al di qua della superficie del piano pittorico intesa come piano di espansione avrebbe caratterizzato, alla fine degli anni sessanta, le invenzioni di artisti come Mark Rothko (autore che Adele Plotkin teneva ben presente).

Le superfici piatte dell’artista di Newark sviluppano (così come nelle opere di Albers o Rothko) un volume, oltre il piano pittorico. I margini percettivi denotati attraverso il cambio di tonalità dei cartoncini colorati, serve a suggerire distanze diverse fra piani contigui. A proposito di quei cartoncini colorati, si tratta di un dettaglio che non tutti conoscono. Non è un caso che Adele Plotkin ne facesse largo uso; aveva infatti imparato ad impiegarli proprio a Yale con Albers. Quest’ultimo chiedeva ai suoi studenti di portare con sé ritagli di carta colorata di ogni tipo, in questo modo, egli diceva, si sarebbe evitato di perdere tempo a colorare gli spazi di carta per svolgere gli esercizi sull’interazione del colore. Le superfici colorate già pronte risultavano più versatili e adatte allo scopo da raggiungere. Questa praticità e, soprattutto, l’esclusione della parte manuale, introduceva un metodo didattico che lei stessa avrebbe impiegato più tardi nelle sue lezioni. Ma abbiamo detto che negli anni in cui insegnò a Bari, Adele Plotkin non dissociò quell’attività di docente con quella professionale. Anzi, così come per Albers, quest’ultima rappresentò una continuazione di quella. Nel suo studio preparava con un’accortezza maniacale i suoi cartoncini, rigorosamente blu-azzurro nelle sotto tonalità più calde o più fredde. Lo faceva tinteggiando uniformemente con colori acrilici vaste porzioni di carta di supporto. «Di tanti allegri colori – ebbe modo di dire – un salto ad uno solo, l’azzurro. Senza un perché, ma una semplice necessità viscerale che irrompe; un blu opaco, denso, che assorbe la luce e racconta poco. Tutt’ora mi tiene compagnia, in una forma o un’altra» (3).

Da Albers aveva imparato a distinguere fra un margine “tagliato” di netto ed uno semplicemente “strappato”. L’effetto risultava diverso. Invito il lettore più curioso a notare questi importanti dettagli […]. I lavori eseguiti fra il 1987 ed il 1990 cono caratterizzati da questa tecnica raffinatissima e, a mio parere, raggiungono la massima complessità sintattica […]. I piani pittorici di questo periodo non hanno una forma, non sono nemmeno circolari; perché quella forma era sembrata, in un primo momento, rispecchiare meglio l’idea di uno spazio senza limiti. In effetti, che differenza vi è fra un punto ed un disco? L’infinitamente piccolo (ma quanto) e l’infinitamente grande (ma quanto). Così lo stesso Kandinsky aveva osservato. No, lo spazio non si può definire se non attraverso l’esperienza dei sensi e persino attraverso una forma simbolica come il quadrato o il cerchio, si rischierebbe di rimanere vincolati a dei limiti rigidi. Quelle non-forme sembrano, all’artista di Newark, le più adatte ad incarnare questo concetto. La circonferenza rimane, all’interno di quelle non-forme con il solo scopo di evidenziare (quasi come avviene per il meccanismo delle forme frattali) che a partire da qualunque punto di quello spazio di superficie, è possibile una iterazione all’infinito, verso l’interno e verso l’esterno. Più precisamente: se una forma circolare riassume simbolicamente lo spazio circostante (come a dire, al di là di questi bordi lo spazio “continua”), uno spazio di superficie delimitato da margini fluttuanti e casualmente asimmetrici può a sua volta contenere (come un pianeta rispetto al sistema solare), o meglio, contiene in sé qualsiasi altra forma, come quella circolare. Spesso  queste composizioni rivelano (a volte in maniera assai celata, come se quel particolare fosse stato sottoposto ad un ingrandimento) un frammento di circonferenza interrotto dai bordi curvilinei del piano di supporto, quasi lo tagliano bruscamente; come a dire: al di là di questa superficie tutto può continuare “come se”. E’ quel che accade in una di queste composizioni senza titolo del 1990, in cui uno di questi margini anomali risulta rettilineo e coincidente con lo spigolo del muro di supporto, come se attraversasse la parete continuando al di là di essa.

Tra il 1993 ed il 2001 Adele Plotkin realizza moltissimi disegni, in realtà si tratta quasi sempre di acquerelli di piccole dimensioni eseguiti su cartoncino bianco. Nell’estrema varietà dei motivi grafici è evidente un unico tema progettuale: la verifica dell’ambiguità percettiva del rapporto figura-fondo. L’obiettivo non è certamente nuovo, essendo invece costantemente presente nelle serie dei lavori del periodo precedente eseguiti su tavola con margini asimmetrici. Questa volta il margine squadrato del foglio di supporto non assume alcuna importanza ai fini dell’obiettivo. Il lettore deve sapere che vi è una continuità degli intenti, visto che il tema del rapporto figura-fondo è all’origine (almeno per quanto riguarda la Gestaltpsychologie) del problema della percezione (e dalla rappresentazione) dello spazio […]. Il tema centrale è semplicemente questo: esiste una figura se esiste lo sfondo, e dato che non vi è la percezione di spazio (inteso come profondità) senza una stimolazione retinica procurata dalla presenza di qualcosa che si trovi sopra-davanti ad un’altra […].  Dunque, la difformità fra due superfici contigue genera la percezione dei margini. Questi margini circoscrivono almeno due oggetti visivi diversi, mediante qualcosa che sta sopra-davanti ad un’altra. Una figura. Questi disegni offrono all’osservatore una straordinaria tavolozza di possibilità di ruoli assunti dalla linea intesa come margine. E’ indubbio che tali obiettivi siano stati affrontati da numerosi artisti, da Hans Harp a Henry Moore, da William Baziotes a Victor Pasmore. Quest’ultimo in particolare, deve avere offerto ad Adele Plotkin un notevole motivo di riscontro (ricordo nella sua stanza di lettura un’importante monografia dell’artista londinese).

A Yale aveva imparato, studiando Arnheim, che la figurazione visuale è il risultato di rapporti funzionali fra le singole parti; che vi sono infinite possibilità di rintracciare un equilibrio visivo e che un punto o una linea instaurano sempre un rapporto con lo spazio bidimensionale che li delimita. Da Albers aveva appreso che due colori adiacenti, diversi fra loro, possono raggiungere la similitudine del contrasto tonale, ma mai l’identità. Che una linea (in quanto margine) è semplicemente il risultato percettivo del contrasto fra pattern diversi. Non solo. Aveva ascoltato dal maestro tedesco i ricordi delle lezioni al Bauhaus, particolarmente quelle di Paul Klee. E’ innegabile che questi acquerelli rappresentino la sintesi di quelle esperienze. La parsimonia delle figure, quasi presenza discreta di esse, rievoca alcuni disegni di Klee.

Questi disegni di Adele Plotkin raccontano una moltitudine di configurazioni possibili in cui la linea-margine è l’attore principale: la linea come contorno di una figura (ad esempio una forma circolare) si richiude su se stessa decretando la differenza fra una parte racchiusa (lo spazio intorno ad essa) e la parte racchiudente (vale a dire lo sfondo, ovvero lo spazio esterno ad essa). Ma quando quest’ultimo richiama a sé quella linea-margine (nei casi in cui questa non si richiude su se stessa o quando lo spazio racchiuso è troppo grande) i ruoli si invertono lasciando l’osservatore disorientato. Si capisce che il rapporto tra figura e fondo è analogo a quello fra convessità e concavità. Una figura è convessa (perché racchiude uno spazio escludendolo dal fondo e attribuendogli una maggiore compattezza visiva); il fondo è concavo (perché lo sono i contorni) quando circonda interamente o in massima parte la figura. Ma quando il margine viene richiamato dallo sfondo, quando cioè viene messo in rapporto con esso da un gioco di ombre che gli attribuiscono una maggiore densità, ecco che improvvisamente vene “in avanti” facendo sì che la figura ora appaia come una specie di bucatura, di lacerazione, di finestra al di là (dietro o sotto) di esso. Questo complesso racconto delle regole gestaltiche della semplicità, avviene attraverso un’abile dislocazione degli elementi ottici all’interno del foglio di carta, campo d’azione di questa interazione dinamica.

Quelli della sovrapposizione e della trasparenza fenomenica sono temi affrontati dalla psicologia della percezione visiva. Argomenti trattati negli ultimi lavori di Adele Plotkin, eseguiti fra il 2011 e il 2013 durante un periodo di lavoro frammentato, interrotto da riposo forzato o degenza a causa di una grave discopatia che le impedisce movimenti o stazionamenti in posizione eretta […]. Queste composizioni risentono certamente di alcuni lavori svolti con Albers negli anni cinquanta, in modo particolare sul fenomeno del contrasto cromatico. Abbiamo discusso insieme di questo, soprattutto di un importante fenomeno visivo di cui ha tenuto conto durante la realizzazione di questi ultimi lavori (mi riferisco al cosiddetto effetto di Bezold).

Le ultime composizioni sono datate fra gennaio ed aprile del 2013. Adele Plotkin trascorre molto tempo nel suo studio, ansiosa di raggiungere i risultati desiderati. Spesso rivede e a volte mette completamente in discussione i suoi imminenti progetti, annotando con grande meticolosità i suoi pensieri ed i risultati giornalieri. Le superfici utilizzate sono di forma rettangolare orientate verticalmente, la tecnica a collage utilizza strisce di carta colorata ad acrilico. Le distanze fra di esse sono attentamente calibrate, allo stesso modo le sottili sfumature di colore che sollecitano quel fenomeno del contrasto e dell’eguagliamento cromatico. L’ottenimento delle tinte desiderate è spesso raggiunto dopo innumerevoli prove anche perché – What looks good in the morning doesn’t work in the afternoon (5)

Fig. 4

Senza titolo, 48×54

20-05-2011

Cartoncino colorato a tempera su compensato

(proprietà Biblioteca Comunale Comune di Pietrasanta – Lucca)

 

«In questa composizione lo sfondo risulta interrotto tanto dalla sovrapposizione fisica di tre fasce verticali di diversa larghezza a dello stesso spessore che procurano delle sottili ombre (più p meno accentuate rispetto alla direzione della luce), quanto alla scissione della trama (l’interruzione della continuità delle sottili linee orizzontali) dipinta su tutta la superficie. Le sette sagome di cartoncino sovrapposto risultano fisicamente in rilievo rispetto al piano di sfondo, tuttavia “arretrate” fenomenicamente rispetto alle sottili linee orizzontali. La tridimensionalità di quelle sagome, che risultano dislocate in base alla grandezza relativa, risulta annullata dall’effetto di trasparenza procurata da sottili rapporti cromatici di contrasto ed eguagliamento.»

 

Si tratta di un sintetico ma complesso gioco di quantità e qualità di forma-colore. Non la ricerca di un equilibrio visivo ma la verifica della profondità dello spazio fenomenico attraverso i rapporti di sovrapposizione. Solo tre colori (incluso quello di sfondo) individuano piani diversi in relazione al gradiente marginale (4). Il lieve spessore dei cartoncini ritagliati è protagonista, insieme al colore, delle stratificazioni di piani relativamente concavi o convessi, dipendentemente dalla direzione della luce.

Credo che l’impegno progettuale di Adele Plotkin non sarebbe stato possibile al di fuori del suo impegno didattico; così come è accaduto per il suo maestro tedesco. Grande è stato il legame con i suoi studenti, inconsapevoli a volte di essere artefici, con lei stessa, di un piccolo destino.

Clemente Francavilla

 

Note

  1. Dalla prefazione al testo: Clemente Francavilla, Teoria della Percezione visiva e Psicologia della Forma, Schena Editore, Fasano 2014.
  2. Le regole di organizzazione visiva rientrano nel più generale problema della formazione delle unità fenomeniche, affrontato per primo da Edgar Rubin nel 1921 attraverso l’analisi del rapporto figura-fondo. Studi successivamente approfonditi da Max Wertheimer nel 1923; il risultato delle sue ricerche sull’organizzazione degli stimoli visivi, portò all’individuazione dei fattori che favoriscono l’organizzazione degli elementi visuali in un contesto unitario, rispetto a criteri di semplicità formale e simmetria.
  3. Da: Adele Plotkin, Immagini ed Echi, Edizioni Dedalo, Bari 2009. In verità Adele Plotkin era ben consapevole del fatto che «So-called segregating colors, like red and yellow, are defined by having hard, distinct boundaries, in comparison with non segregating blues and greens, which by juxtaposition produce soft boundaries». Così ebbe modo di scrivere Lois Swirnoff in un libro con dedica all’artista di Newark, in ricordo delle lezioni seguite insieme a Yale con Albers.
  4. Il gradiente marginale è rappresentato dal contrasto luminoso tra due superfici contigue. La differenza in termini di saturazione e chiarezza, determina la “distanza” fenomenica fra il pano pittorico e l’osservatore. Quando questa differenza è ridotta al minimo, i margini divengono labili ed il rapporto figura-fondo perde il normale antagonismo.
  5. Da un’annotazione di Adele Plotkin del 5 marzo del 2013.

Lois Swirnoff, cit. Kurt Koffka, 1988

«Transposition does not distrupt the aggregate. Musically, a change of key does not destroy the melody (…)».